Cesure in Campidoglio
di FULVIO BIANCATELLI, artista
Lunedi 7 e mercoledi 9 Dicembre ore 21.00
Musei Capitolini, Sala del Marco Aurelio
Piazza del Campidoglio, 55
Il Roma Festival Barocco nell’ambito della presentazione dei concerti ha intrapreso una nuova iniziativa volta ad aprire i confini che spesso racchiudono ambiti culturali ed artistici diversi, ma che pensiamo abbiano più che qualche caratteristica in comune.
Far dialogare e confrontare musica, arte, architettura, cinema è un’occasione per creare sinergie nuove, contaminazioni inaspettate.
Con queste premesse in concomitanza con i due concerti del 7 e 9 Dicembre in Campidoglio, Sala del Marco Aurelio, si presentano alcune opere dell’artista Fulvio Biancatelli della serie Cesure, in sintonia con i brani presentati.
Lavori volti all’indagine di quei vuoti, spesso voragini che si creano quando, nella vita un evento nuovo importante cambia e trasforma per sempre il percorso, la psiche, la persona.
Cesure quindi come interruzioni, vuoti, smottamenti geologici, ferite virtuali che ognuno ha avuto ed avrà percorrendo la vita e che anche se si rimarginano lasciano un segno, una cicatrice, che si può toccare, vedere, che rimane come un tatuaggio.
Cesure come diagramma della vita.
Tra questi vuoti le grappe, elementi di collegamento, come se la materia fosse stata stirata, uno stretch dell’anima e del corpo che si deforma, si plasma, si trasforma e va avanti, caratteristiche di continuità genetiche o ambientali che portiamo con noi ad ogni passaggio.
Cesure come ritmo musicale della vita.
Cesure scandisce in musica silenzio e note, in arte vuoti e pieni, in architettura luce e materia, vuoto e spazio.
Cesure come diagramma della musica.
e-mail: fulviobiancatelli@yahoo.it
sito www.fulviobiancatelli.com
catalogo http://www.fulviobiancatelli.com/pdf/Io.pdf
video http://it.youtube.com/user/fulviobiancatelli
Ferri arrugginiti, viti, bulloni, grette, lattine pressate, lamiere contorte, nastro plastico da imballo, chiodi, fili di ferro attorcigliati, catenelle, frantumi di cristallo ecc. sono tutti poveri elementi industriali di scarto con cui l’artista, architetto e designer romano Fulvio Biancatelli (classe ’57), struttura un complesso, affabulante e fascinoso alfabeto secondo un personalissimo codice linguistico, reificando tali oggetti-frammento quali scarti della società in preziose occasioni multi-espressive, ruotanti a coda di pavone in un reale riflesso nella pluralità del senso. Scrive l’autore: “Nella costruzione, quello che mi disarma è l’assoluta espressività delle materie: il canto del ferro che incatenato dal collante, tradisce una tensione imprigionata per sempre…”.
Talvolta queste “reliquie” della modernità, sull’orlo di una sparizione in favore del nuovo “immateriale” tecnologico che avanza a velocità accelerata – realtà che il filosofo francese Paul Virilio non cessa di definire come: “…una situazione in cui la specie è a fine corsa poiché non è più in grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che mai” – si accostano a piccoli frammenti di natura, anch’essi miseri relitti, trovati sulla spiaggia ed elaborati dalla forza del mare come pietre levigate, legni, conchiglie, quasi alla ricerca di un possibile, poetico innesto dove anche la natura lancia il suo grido d’allarme, pressata com’è dall’attualità di precari e vacillanti ecosistemi. “Raccolgo un po’ tutto ovunque”, dichiara l’artista “perché mi chiamano a testimone di uno scempio, di uno spreco d’inciviltà…”.
E allora, con l’attenzione di uno scienziato che pone il materiale sul “vetrino” per esaminarlo, Fulvio Biancatelli depone le sue reliquie-oggetto su lastre in metacrilato trasparente (plexiglas “a freddo” che non ha subito condizioni di liquidità) come simboli di un mondo in estinzione da consegnare a futura memoria secondo armonie spazio-temporali e ritmate composizioni, chinandosi amorosamente sugli scarti-frammento per reinserirli in una vitalistica circolazione sanguigna che è specifica dell’arte. In un secondo tempo fissa gli elementi al supporto con potenti colle chimiche facendoli “cantare” per l’eternità.
Nella prassi operativa questo è il momento più delicato in cui colorate polveri di aniline – spruzzate sulla composizione – si impastano col vinavil (usato per il fissaggio) creando una magica fusione pittorica tra gli elementi del quadro ed il supporto.“ Poi l’attesa che il collante incateni le materie, ma sopratutto che il colore si diluisca formando sfumature sconosciute e la ruggine cerchi vie di uscita dalla trappola imbastita…” spiega ancora l’autore. Prende così corpo una delicata “pelle” che interagisce con l’opera mediante riflessi cangianti dei rossi, verdi o blu, un’unica pasta pittorica capace di suggerire acide, violente e al contempo inquietanti atmosfere dove la materia, trasformata in catartiche accelerazioni, sembra trascendere in “liquefazioni spirituali”.
La ruggine ha qui una notevole importanza: la fioritura dei funghi del ferro crea l’idea della distanza, dello scorrere del tempo che consegna l’ovvio al passato e che rinasce nella potenza energetica di una rinnovata linfa vitale. Ciò richiama l’opera del genovese Claudio Costa, artista internazionale che sugli elementi di scarto della società (con particolare attenzione per la ruggine cui aveva dedicata, nel ’90, l’intera mostra “Per case di ruggine”) aveva fondato la sua poetica.
Nel lavoro di Biancatelli, e in quasi tutta l’arte contemporanea, si nota una sorta di apologia del “frammento” poiché abbiamo perso l’idea dell’“intero” attraverso cui ci riconoscevamo abbracciandone i limiti nei quali era circoscritto.
Visione, questa, che è propria del passato (fino al secolo scorso) e che oggi ci è stata tolta dall’incommensurabile grandezza del mediatico “villaggio globale” che, volenti o nolenti, universalmente abitiamo. Non potendo riconoscersi in grandezze uscenti dai nostri limiti percettivo-sensoriali nasce allora il culto, l’amore infinito per il piccolo, il micro, per ciò che in fondo è più simile al nostro “esserci” nel mondo.
Miriam Cristaldi