9 DICEMBRE ORE 10.30
ROMA, MUSEO D’ARTE SACRA DI SAN GIOVANNI DEI FIORENTINI

Giovanni Lorenzo Lulier: strumentista e compositore nella Roma di fine Seicento

SPAZIO

Giovanni Lorenzo Lulier (c1660-1700), noto ai suoi contemporanei con il nome di “Giovanni del violone”, fu compositore di cantate da camera, serenate, oratori, opere e stimato suonatore di violone a servizio di due dei maggiori cardinali romani dell’epoca: Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni. Impiegato occasionalmente come strumentista per le conversazioni e accademie di altri principi mecenati o ambasciatori stranieri, figura spesso nelle liste di musici sotto la battuta di Arcangelo Corelli o impiegato in cappelle e chiese nazionali romane, come san Giovanni dei fiorentini o san Luigi dei francesi. Nonostante una certa notorietà in vita, il compositore e la sua produzione hanno conosciuto un rapido oblio che soltanto negli ultimi anni ha iniziato a diradarsi, grazie a studi che stanno riportando alla luce il corpus delle sue composizioni.
La mattinata di studi si propone come momento di incontro tra studiosi, musicologi e musicisti, anche grazie al patrocinio del Centro Studi sulla Cantata Italiana (Università degli studi di Roma Tor Vergata) e della Società Editrice di Musicologia, mostrando la direzione delle ricerche più recenti a partire dalle cantate da camera.
Sarà presentata l’edizione critica delle cantate da camera di Giovanni Lorenzo Lulier a cura di Chiara Pelliccia, edita dalla Società Editrice di Musicologia e il progetto discografico realizzato a partire da questa edizione dal violoncellista Marco Ceccato con Francesca Boncompagni e l’ensemble Accademia Ottoboni, con l’esecuzione in anteprima di arie dalle cantate e con un’introduzione al concerto serale.

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Interverranno

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Teresa Maria Gialdroni (Centro Studi sulla Cantata Italiana – Università degli studi di Roma “Tor Vergata”), Arnaldo Morelli (Università degli studi di L’Aquila), Bianca Maria Antolini (Conservatorio Francesco Morlacchi di Perugia, Società Editrice di Musicologia), Chiara Pelliccia (Istituto Storico Germanico di Roma, curatrice dell’edizione critica), Elena Abbado (Istituto Storico Germanico di Roma).

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Verranno eseguite musiche di G. L. Lulier da Francesca Boncompagni (soprano), Marco Ceccato (violoncello) e Accademia Ottoboni.

La Didone

Già dell’empio tiranno
I fuggitivi abeti
Aran l’umido piano
Col fraudolente rostro all’ampia Teti.
Misera Dido, ancora
per quest’atrij t’aggiri.
Sfoga pria che tu mora i tuoi martiri.

Perché cada ormai sconfitto
Dentro il mar quel disleale.
Ogni nube avventi un strale,
Come chiede il suo delitto.

Cruda cagion del mio schernito affetto,
Principe traditore
Nell’incauto mio petto,
Di’, chi ti trasse ad usurparmi il core?
Pèra quel negro giorno
Che in questo eccelso regno
T’accolsi io per mio scorno ospite indegno.

Fuggi, che s’ai miei lutti
Il mar non si confonde
T’assorbiranno altr’onde
De’ miei gran pianti i flutti.

M’abbandona l’infido e voi che fate,
Santi numi ospitali,
Ch’oggi non avventate
Tutti sul capo altier gli accesi strali.
Dritto è ben che s’impieghi
La vostr’ira divina
D’un’offesa reina ai giusti prieghi.

Mentre io resto ed ei dispare,
Egli è mare ed io son scoglio.
Ma s’ei sprezza ed io mi doglio
Egli è scoglio ed io son mare.

Verso se stessa rea
Sul violato lido
Così dicea l’abbandonata Dido,
Pria che con gran ferita
Troncasse fulminando
Il fil della sua vita un fil di brando.

Ferma alato pensier

Ferma alato pensier, ferma il tuo volo.

Dove ne vai così vagante e solo?
Pavento il tuo fuggir, ferma il tuo volo.
Occulto predatore
Io ben lo so mi vuoi rubare il core.
Per pace del mio seno
Dimmi ti prego almeno
Dove porti il cor mio,
Dimmi come poss’io
Vivere senza cuore in preda al duolo.

Ferma alato pensier, ferma il tuo volo.

Si ribella dall’alma il pensiero
Perch’io perda la mia libertà.
E congiura col nume d’amore.
Perch’il core
Sia bersaglio d’un barbaro arciero,
Che tiranno d’ogn’alma si fa.

Vanne dunque, o pensier, al nume infido,
Seppur nume è Cupido
E il cor ch’ora mi togli
Di’ che lo doni, o Dio,
Al bell’idolo mio
Che senza sospirar non può già dirsi,
Di’ che lo doni a chi, lo doni a Tirsi.

Il bel che splende
In quel sembiante,
A poco a poco
D’un dolce foco
Tutta m’accende
L’anima amante.

Vanne dunque, o pensier, ma poi ritorna
Torna dove soggiorna
Insiem con Tirsi Amore,
Simili entrambi se non che Ciprigna
Tolse gl’occhi ad Amor li diede a Tirsi
Acciò li dardi scocchi
Con la faretra Amor, Tirsi con gl’occhi.

Tirsi se vuoi il cor mio,
Voglio il tuo core ancor.
L’anima ch’è ferita
Spera tornare in vita.
S’appaghi il suo desio
Con vezzi e con amor.

Ama chi t’ama, Tirsi, e il cor ti prendi.
Quanto ho caro ti do, tanto mi rendi.
Ne sia giudice Amore,
Che benché cieco sia,
Dirà che per un core il cor si dia.

È troppo ingiusta brama
Voler essere amato e non amar.
Ama, Tirsi, chi t’ama,
Oppur d’essere amato non bramar.

Amor, di che tu vuoi

Amor, di che tu vuoi ch’ora io favelli?
Di due rose d’un volto
O dell’ombrosa pompa
Di quei capelli,
Che fan dell’idol mio
la beltà più vezzosa?
Ah, t’intendo ben io,
Brami sol ch’io ragioni
Di due begli occhi neri e che del canto,
Come pregi più belli, abbiano il vanto.

I begli occhi del mio bene,
Vincon tutte le beltà.
Vago è il giglio e pur la rosa
Ch’al bel volto ogn’or si sposa,
Ma quel lume sì seren
In bellezza egual non ha.

Non vi stupite amanti
Se talor voi mirate
D’Amor l’arco e gli strali
Che fan sì belle le ferite in voi:
Tempra gli strali Amor ne’ lumi suoi.

Quelle luci son due stelle
Che sì belle
Mai non vide in cielo Amor.
E se Apollo le vedea,
La sua dea
Non avria seguito allor.

Occhi leggiadri e belli
Occhi sopra mortal corso sereni,
Poiché fu mia ventura
Di vostr’alta vaghezza esser amante
La divina beltade
Onde il cielo ed Amor vi fe’ bel dono
Se mirar in voi stessi or non potete,
Mirate almeno in me quel che voi siete.

Mirate le mie piaghe
Luci vezzose e vaghe.
E dite: questo cor per voi si more.
Ne’ lampi del mio foco
Vedrete a poco a poco
La forza e la beltà del vostro ardore.